Da Quella Prigione by Marco Belpoliti
autore:Marco Belpoliti [Belpoliti, Marco]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Terrorism, ebook, Political Science
ISBN: 9788823502895
Google: yy3LSg-bM0YC
Amazon: B009ZCUCES
editore: Guanda
pubblicato: 2012-11-27T23:00:00+00:00
Da oltre trent’anni, ogni volta che rincontro quella foto (cosa che non capita spesso, perché viene riprodotta con parsimonia, persino con pudore, come se offrisse qualcosa di osceno), ho l’impressione che l’uomo politico democristiano, il sottile tessitore del «compromesso storico», il giurista, il docente universitario, il padre di famiglia, continui a guardarci negli occhi, così come ha guardato negli occhi colui o colei che lo fissava per sempre in questa immagine.
Ho l’impressione – ma è qualcosa di più di un’impressione – che questa sia la fotografia più «vera» di Aldo Moro, quella che più di tutte ci rende l’essenza della sua persona, naturalmente in relazione alle immagini pubbliche, e non certo ai ritratti privati di Moro. Poco dopo il ritrovamento del cadavere del presidente della Dc, il settimanale «Oggi» propone un’altra foto di Moro, seduto davanti a un tavolo, in giacca e cravatta, l’orologio al polso, mentre sta parlando (forse è a un esame universitario, attività cui era dedito con impegno), con questa scritta: «Ricordiamolo così». Certo, c’è anche la terribile foto del suo cadavere dentro la R4, «acciambellato in quella sconcia stiva», come ha scritto in una sua poesia Mario Luzi, una delle foto più viste dell’ultimo trentennio.
Paradossalmente la vera foto di Moro l’hanno scattata proprio loro, i suoi sequestratori e assassini. Volevano fare pubblicità a loro stessi, si è detto. Dalla foto del primo «prigioniero», Idalgo Macchiarini, a quella del giudice Mario Sossi, le BR hanno usato la fotografia come uno strumento di propaganda e di proselitismo: apprendisti stregoni del documento, e insieme aspiranti pubblicitari. Qualcuno ha sostenuto che il processo a cui hanno sottoposto i loro «prigionieri» si è sempre risolto nel rituale dello scatto fotografico: una forma di Wanted alla rovescia. Figli di Nadar, si potrebbe definirli, e non è peregrino dirli così, dal momento che alcuni di loro potrebbero oggi militare con successo nelle file dei pubblicitari, tra i negromanti della fotografia pubblicitaria, delle foto-shock in particolare.
Nella seconda fotografia di Moro inviata ai giornali, secondo episodio del «processo visivo» condotto contro Moro, l’«uomo comune» ci fissa; tuttavia il suo sguardo non è diretto (forse gli era stato ordinato di non guardare dritto nell’obiettivo: uno sguardo diretto è sempre intollerabile, è osceno). Nella fotografia c’è infatti una sorta di dissimmetria dello sguardo: il suo occhio destro guarda dritto verso di noi, mentre il sinistro è deviato, seppur di poco, verso qualcosa d’altro. L’effetto non è quello di uno strabismo, ma di un’instabilità: guarda verso di noi, ma non guarda noi.
Per quanto ridotto a «uomo comune» – è la tesi di Sciascia –, in questa foto Moro sembra aver riacquistato una certa regalità che non ha niente a che fare con quella attribuitagli dal ruolo di uomo di potere, una regalità che pare derivargli da un’inconsueta serenità del volto, ma anche dalla capigliatura che gli incornicia il viso; e persino da quel ciuffo di capelli bianchi – il suo stigma – che nella foto in bianco e nero, così sgranata nella pagina del quotidiano, appare come il segno di un’evidente diversità.
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